martedì 27 agosto 2013

Al riparo dal potere: Il Signore degli Orfani di Adam Johnson

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Edito da Marsilio Editore, vincitore del Premio Pulitzer 2013

Chi è il Signore degli Orfani? Nessuno di importante. Il figlio del signore degli orfani invece è il protagonista del romanzo. Lui sì, è importante. A questo soldato, in balia degli eventi, incapace di disertare nonostante la vasta rosa di orrori di cui si gloria il governo della Nord Corea, è negata qualsiasi identità. L'unico appiglio sicuro è quello di essere cresciuto in un orfanotrofio, gestito dal padre avvinazzato e schiacciato dalla disperazione fino a diventare crudele. Ma lui non è un orfano. Sua madre, una bellissima cantante, è stata portata nella Capitale per allietare le serate dei potenti. Questo nucleo di capricciosi uomini che giocano col destino di milioni di persone. Anonimo, sadico, imbattibile.
Il più cupo dei romanzi distopici è dipinto da Johnson. Dimenticatevi la nuova moda Young Adult con pennellate di distopia. Questo è un romanzo che vi farà domandare come e perché tutto questo è possibile nel mondo reale.
Certo, tante delle storie descritte dall'autore sono poco realistiche - non per il carico di atrocità che portano con sé ma perché in successione tendono a capitare al nostro protagonista una quantità tale di eventi da creare un effetto di saturazione - ma tutto è perdonato perché il vincitore del Pulitzer dispiega un ventaglio che non vuole narrare un'avventura ma una narrazione simbolica, ricca di metafore e rimandi interni. Ambiguità è la parola chiave per decifrare il romanzo. I personaggi camminano su un filo sospeso in aria. Una pericolosa zona grigia, come l'area demilitarizzata che divide il Nord e il Sud della Corea, tra verità e menzogna. Tra versione ufficiale, accettata dal governo, e la tua versione, la tua storia che è sempre in secondo piano, sempre nascosta. Quello che davvero ti ruba un regime, non è la felicità, è la verità. La tua identità, la tua storia. La capacità di realizzare il tuo destino. Nessuno dei protagonisti riesce ad essere se stesso. Tutti indossano una maschera, tutti raccontano delle bugie. Chi per salvare se stesso, chi gli altri.
Il risultato è un gigantesco groviglio di metaletteratura. In cui non solo i fatti ma anche i pensieri, i desideri vengono miscelati al passato, alle menzogne di copertura, all'immaginazione, alle speranze dei protagonisti. Niente è mai chiaro. Anche il narratore è sdoppiato, o per meglio dire, frammentato in più punti di vista. Oltre che a creare un escamotage narrativo potente, questa tecnica è fortemente significativa per capire fino in fondo cosa vuol dire vivere sotto un governo dispotico e totalitario. La tua intera esistenza è messa in discussione, persino il tuo pensiero. 
Anche l'amore, una passione che dovrebbe essere diretta verso un unico oggetto del desiderio, qui si dirama in molte direzioni, o meglio, è diretto verso una donna ma è nutrito da molteplici affluenti. All'immagine della donna amata quindi si sovrappongono tutte le immagini delle donne amate dal protagonista, a cominciare dalla madre perduta fino ad un surrogato di madre che gli salverà la vita.
Il Signore degli Orfani è un romanzo bellissimo, non privo di difetti, ma audace e immaginifico. Le sue storie vi cattureranno, le odierete a volte, perché dicono la verità, anche se resa migliore dalle parole. Questo è il trucco della letteratura.   
Un protagonista cresciuto al buio, in un paese che si spegne di notte, che lotterà nell'oscurità. Non come un eroe. Non contro il potere, ma al riparo da esso.

"Tu sei la fiamma. Il vecchio continua a toccare la tua fiamma calda soltanto con le mani ma soltanto le sue mani toccano la tua fiamma, e allora guarda adesso come si sta bruciando"


"Il nome Mongnan significa magnolia, il fiore bianco più bello di tutti. E questo ciò che i nostri soggetti dicono di vedere quando sono all'apice del dolore: una cima montuosa in inverno, dove in mezzo al ghiaccio un fiore bianco solitario sboccia per loro"

Mollate Hunger games et similia, purtroppo il mondo ha già fatto di peggio.

giovedì 8 agosto 2013

La malattia contemporanea: Rosso Americano, Rick Moody



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Il titolo originale è Purple American. Nonostante sia stato usurpato dal rosso, nell'edizione italiana quel porpora, quel viola, quel rosso malaticcio, vittoriano, così carico, ha modo di scaturire a più riprese e di inondare lo sguardo del lettore. Il titolo contiene già in sé tutte le perfezioni del romanzo. Un "purple" che già al suono sembra suggerire la malattia, la morte, il degrado. Perché il viola è quasi un rosso deformato. Ti ipnotizza e dentro c'è tutto. Eros e thanatos. Queste due pulsioni ancestrali che lottano in un orizzonte di desolazione postindustriale.

Trama
Rosso Americano è un racconto condensato di 48 ore della vita di Dexter Raitliffe, uomo di mezza età, costretto a ritornare nella cittadina in cui è cresciuto per prendersi cura della madre, Billie, rimasta sola. "Ma' Raitliffe"è malata. Costretta in un letto, paralizzata, ha bisogno di costanti cure e attenzioni. Mentre Dexter deve fare i conti con il precipitare della malattia materna, scoppia un incidente in una centrale nucleare. In che modo la fuga radioattiva è intrecciata alle vicende della famiglia Raitliffe?   


La geometria del romanzo è disegnata su un triangolo: malattia-nuclearizzazione-senso di colpa. Due filoni narrativi: quello della malata degente, Billie, accudita dal figliol prodigo, Hex, e quella di Lou, marito e patrigno in fuga, coinvolto in un incidente nucleare. La narrazione binaria è unificata dal senso di colpa, sentimento che pervade ogni sillaba di questo tortuoso romanzo.
Come delle schegge impazzite continuiamo a rimbalzare in questo tossico perimetro chiuso, da un angolo all'altro del triangolo: l'ambiente contaminato dalle radiazioni che genera la malattia che genera il senso di colpa.
La scrittura di Moody è caleidoscopica. Adotta un realismo acido, corrosivo che, naturalmente finisce per mescolare dettagli grotteschi e parossistici ad elementi classici simbolici (ritorna continuamente l'immagine del bagno, simbolo di purezza ma anche di morte). L'uso della lingua è magnifico, pieno di sfumature. Ogni situazione è descritta attraverso una prospettiva inedita che mira a negare ogni descrizione fedele alla consuetudine, bandita la normalità. Mi ha ricordato molto Palahniuk. Solo che Moody è migliore. Migliore perché ha un respiro più ampio, meno frammentato, meno scandalistico. Più labirintico. Più vicino ai personaggi. Ecco, sì, i personaggi.
Hex e Billie. Il figlio e la Madre. Questa è la storia più antica del mondo. Di come gli esseri umani siano lontani anni luce, di come la più semplice delle comunicazioni risulta impossibile. Moody estrinseca il tema attraverso mortificanti processi fisici: da un lato la madre, a causa della sua malattia, sta perdendo la voce, unico baluardo di civiltà, di resistenza contro la passività che si sta impadronendo di lei. Si rifiuta di farsi aiutare dalla voce artificiale e preimpostata di un computer. Non vuole rassegnarsi al processo umiliante di reificazione a cui va inevitabilmente incontro. "Il mio corpo, il mio povero corpo" diventa una nenia ossessiva, un sottotitolo a tutte le sue non-azioni. Dall'altro lato, anche il figlio è condannato all'incomunicabilità, vittima di una più "normale" balbuzie. Queste due isole, queste due solitudini sono il cuore del romanzo. La madre che chiede un gesto di pietà, con tutti gli sforzi che le costa articolare una semplice richiesta. Si affaccia così il fantasma dell'eutanasia. Hex non comprende, non accoglie, non accetta.
Come potrebbe? Ingombrato da un complesso edipico enorme, alcolizzato e incapace di instaurare rapporti umani solidi.  
"Come fa la gente ad invecchiare? A mettere la testa a posto?". 
"Le uniche parole che vengono facili da dire ad Hex Raitcliffe sono, in sostanza, parole di scusa".
 Moody sembra scegliere per il suo romanzo delle situazioni limite, delle esistenze estreme, ai margini. La verità però è ribaltata. In realtà, tutti siamo malati. Hex e Billie sono soltanto due esempi. La malattia ci circonda perché viviamo in un ambiente contaminato. Ecco che l'apparente narrazione secondaria (quella della fuga radioattiva) trova la sua perfetta collocazione, il suo esatto significato. L'America è sciupata, consumata. Una critica caustica all'indifferenza, ai paradisi artificiali di cui noi Occidentali siamo i più famelici divoratori. Moody con il suo sarcasmo impietoso ci elenca, come un dottore ghignante, i sintomi della nostra malattia. "Il nostro diritto inalienabile alle sit-com", i cibi di plastica, lo stordimento quotidiano legalizzato di alcool e barbiturici, il nostro dimenticare continuo e incessante.
Incredibile come da un romanzo così chimico, così artificiale scaturisca così potente la compassione, la partecipazione al dolore, la comprensione totale della sofferenza. Tutti abbiamo il nostro Inferno. E Moody ce lo mostra. Un formidabile fuoriclasse, di razza bastarda che ci fa commuovere e incazzare. Uno degli scrittori della vita. 

Se potessi scegliere un'immagine da allegare al post, metterei una scena del romanzo. Difficile da commentare. Un penoso bacio su un molo che si affaccia su un cantiere dove costruiscono sottomarini militari. "Un'avventura sentimentale contemporanea, monumento a tutto ciò che c'è di grande tra gli americani, l'Electric Boat, divisione della General Dynamics Corporation (...) dove i residui lavoratori timbrano il cartellino per edificare armi di distruzione". Uno sfondo post-industriale degradato su cui questi due manichini cercano un appiglio in un mare di impotenza.

P.S. Le prime due pagine del romanzo sono una poesia. Un lunghissimo periodo in cui c'è davvero tutto.