giovedì 23 gennaio 2014

Il vostro potenziale libro preferito è al macero. Che fare? - I granchi dell'editoria #9

ilenia 001Cosa succede quando scoprite che il libro che agognavate è fuori produzione? Escludiamo per un attimo le reazioni fumantine, l'adozione di un linguaggio colorito e lo sciopero della fame. Come fare per recuperare il tomo dei nostri desideri?
Quando appare la dicitura: “non più disponibile sul sito”, una parte di noi lettori già si dispera e si arrende, pensando che non ci sia modo di recuperare il suo potenziale libro preferito. Sì, sono un'ottimista. Fingete che nessun romanzo si riveli mai una delusione: il fantastico mondo dell'irreale e della possibilità non ci delude mai (Gatsby mi ha traviato in giovane età).
Alcuni lettori più navigati (o più ostinati) invece andranno in un luogo mistico che ricorda, neanche troppo vagamente, la stanza delle necessità in Harry Potter: il mercatino dei libri usati.
Le più varie tipologie di lettori si muovono in questo universo meraviglioso: molti si limitano a spulciare negli anfratti più bui per poi accontentarsi di classici in edizioni rilegate (io non ci sputerei) ma senza trovare il romanzo contemporaneo per cui erano arrivati speranzosi. Altri (i bibliotecari) si limitano a catalogare nella loro mente ogni singolo tomino (compresa la posizione del banchetto – stile battaglia navale - e un bozzetto del volto del venditore) in attesa di tempi migliori. Pochi conquistano addirittura il titolo di pirata (tutto quello che vogliono lo conquistano con la forza a prezzi stracciati).
E poi ci siamo noi. La categoria degli sfigati. Quelli che non hanno un mercatino di libri usati nella propria città. E che hanno tre opzioni: traslocare in una città migliore; mettere tra i preferiti il sito del Libraccio o supplicare la casa editrice colpevole del misfatto di ristampare il vostro potenziale libro preferito.
Lo scorso mese, tuttavia, si è profilata per la sottoscritta – che cercava come un segugio Amore e morte a Varanasi – un'altra opzione: la strada del digitale. Il libro che è andato fuori commercio, per i motivi più disparati, può rientrare nel circolo dell'amore letterario grazie all'opportunità che offre l'edizione digitale. L'ebook costa di meno, permette di recuperare un romanzo fuori produzione e potete averlo senza fare il giro del mondo in ottanta camicie di sudore, ma con un semplice click. I vantaggi del digitale ancora una volta tornano utili a noi lettori (che troppo spesso demonizziamo questo miracoloso mezzo). Se il vostro potenziale libro preferito non è ancora stato digitalizzato, potreste chiedere voi stessi alla casa editrice di farlo e sono sicura che la possibilità sarà vagliata (al contrario della ristampa, ipotesi remota sulla quale è meglio non sperare troppo).
Insomma chi ci rimette? Sicuramente non la foresta amazzonica.
Articolo originale qui

martedì 14 gennaio 2014

L'omonimo di Jhumpa Lahiri: prima delusione dell'anno

Quest’anno ho deciso di non fossilizzarmi sulla letteratura americana, tendenza di cui penso vi siate accorti tutti. Così ho deciso di ampliare i miei orizzonti, leggendo un romanzo di una scrittrice di origini bengalesi, nata a Londra ma cresciuta negli Stati Uniti: Jumpha Lahiri. Vincitrice del premio Pulitzer nel 2000 per la sua raccolta di racconti “L’interprete dei malanni”, è una delle autrici americane più apprezzate. Come dite? Ah, dovevo allontanarmi dallo scenario statunitense? Un passo alla volta, ragazzi. Un passo alla volta. 



Recentemente soprattutto in Italia si è parlato molto di Jhumpa. La scrittrice infatti si è trasferita a Roma nel 2012 (parla molto bene italiano, tra l’altro) ed è da poco uscito, edito da Guanda, il nuovo romanzo “La moglie”, che pare essere il suo miglior lavoro

Tuttavia, spinta dai riscontri più che positivi e sicurissima di dover recuperare tutta la produzione della scrittrice, ho deciso di iniziare dal suo primo romanzo: The namesake, che ho letto in lingua originale. In Italia “L’omonimo” è edito da Marcos y Marcos (se bazzicate i mercatini dell’usato e siete molto fortunati dovreste riuscire a trovare anche un’edizione Guanda, ormai fuori commercio). 




Credo che qualcuno più furbo di me, avrebbe iniziato dall’opera con cui ha vinto il Pulitzer. E avrebbe fatto bene. Se una scrittrice è acclamata per le sue short stories, perché leggere il suo primo romanzo? Già perché? L’omonimo per me è stata una lettura davvero deludente. 

Il romanzo è incentrato sulla lotta di una coppia bengalese che emigra negli Stati uniti e forma una famiglia in un ambiente per loro sconosciuto e in cui si sentono spesso fuori posto. Ashima e Ashoke, uniti da un matrimonio combinato, danno alla luce un figlio che per una serie di circostanze ed inconvenienti, viene chiamato Gogol, come lo scrittore ucraino. Per il padre infatti il nome di Gogol assume una valenza emotiva speciale, di cui però Gogol resta all’oscuro. Crescendo egli comincerà a sentire il peso di questo nome così bizzarro che non percepisce come proprio e che rappresenta anche il simbolo di un passato (quello di suo padre e quello dello scrittore) che egli non comprende e non accetta. Il conflitto attorno al nome diventa una ricerca della propria identità, del proprio scopo, della propria appartenenza. Come il romanzo della Selasi, L’omonimo - scritto nel 2003 - è un romanzo potenzialmente cosmopolita e ricco di tutti quei temi sull’incontro-scontro tra le varie culture nella società globalizzata e soprattutto negli Stati Uniti, melting pot di tradizioni. 
L’idea del romanzo (e badate bene, l’idea) ruota non solo attorno al conflitto tra il nome e l’identità, ma è anche il conflitto tra due culture, quella americana in cui Gogol si sente perfettamente a suo agio e quella indiana a cui sente di non appartenere ma che non può rinnegare, soprattutto per il senso del dovere che ha per i suoi genitori. 



La trama e il substrato del romanzo sono assolutamente promettenti e ambiziosi. Il problema però è che tutti questi temi sono sbiaditi. L’impressione viva che si ha durante la lettura è quella dell’attesa. Attesa di una svolta. Si ha la perenne sensazione di star leggendo un’introduzione mastodontica ad un bellissimo romanzo che non arriverà mai. Da cosa è causato questo turbamento? Indubbiamente dalla struttura del romanzo. La narrazione è tutta (e quando intendo tutta, intendo per intero) sviluppata attraverso il discorso indiretto. Un’intera vita (quella di Gogol), dalla nascita all’età adulta, raccontata attraverso quelli che - ahimè - mi tocca definire riassunti. 
I dialoghi sono un miraggio lontano, le interazioni tra i personaggi sono rare e poco esaltanti. In compenso abbiamo un ingorgo di informazioni. La Lahiri mi ha dato la sensazione di essere una scrittrice molto “materiale”. Sono descritti con grande dovizia di particolari gli oggetti che arredano gli ambienti, i vestiti che indossano i personaggi, i colori e gli odori. Per quanto riguarda la natura umana, invece, niente di pervenuto. A parte un sottilissimo involucro superficiale. 
Posso comprendere una scelta stilistica di questo tipo. La Lahiri vuole sottolineare la difficoltà del protagonista (Gogol) a trovare una sua identità, la sua distanza dai genitori, i suoi sforzi per cercare di connettersi ad una realtà che gli sembra aliena. Ma tutto questo non è mai sublimato da immagini forti, potenti. A livello stilistico non comprendo la necessità di mettere ogni singolo dettaglio della sua vita sotto forma di riassunto. Per esempio: ci sono diverse relazioni che il protagonista intreccia con delle donne ed esse appaiono talmente superficiali - per come sono narrate, non per la natura del rapporto - che ci si chiede dove si stia andando a parare. Mi sembra che i temi siano stati indeboliti da questo continuo spostare l'attenzione su dettagli e descrizioni molto fredde e prosaiche. L’interiorità del protagonista non è sublimata dalla narrazione che invece è per una buona parte piatta e cronachista. Si è persa così gran parte dell’emotività del romanzo che infatti risulta asettico e pedante.
Il romanzo per me è debole e poco incisivo. è scritto bene ma non benissimo, la storia è interessante ma non eccezionale. Non è brillante, gli manca slancio creativo. Nonostante ci siano degli sparuti scorci di sapienza narrativa - come la ricorrente immagine-simbolo del treno e i riferimenti a “Il cappotto” di Gogol - essi sono insufficienti a risvegliare l’emotività del lettore.


La parte più gradevole risulta quella iniziale, la storia di Ashima infatti è quella che possiede più cuore e vitalità. Non è un caso che la Lahiri abbia ripreso questo nucleo tematico - che è quello che effettivamente le risulta più congeniale - nel suo ultimo romanzo che, nonostante tutto, voglio leggere: “La moglie”.  
 


venerdì 10 gennaio 2014

Educazione alla gentilezza: Dieci Dicembre di George Saunders

Dieci Dicembre è l’ultima raccolta di racconti di George Saunders, uno degli scrittori più influenti del nostro tempo. Vi ho intimoriti?

Non credo di aver torto quando affermo che il clamore attorno a Dieci Dicembre - il New York Times l’ha definito “il miglior libro che leggerete quest’anno” - sia da imputare quasi interamente a questo signore. 

Saunders piace, anche parecchio. Prima ancora della sua scrittura, è proprio lui ad accattivarci. È un tipo garbato, autoironico. Con una caratteristica particolare, però. Ha negli occhi una bislacca convinzione: vuole migliorare il mondo con un sorriso. Appartiene a quella brutta razza in via d’estinzione: i sognatori. Con l’aggravante di avere una penna in mano. 
Comprensibile quindi l’effervescente entusiasmo che genera Dieci Dicembre e che è ancora più intensificato dalla lettura (Sì, ad un certo punto bisogna anche leggerli i libri, mica solo parlarne!). 

Anche se non arriverete a definire questa raccolta “il miglior libro dell’anno” - cosa che nemmeno io credo, d’altronde - comunque è difficile che non restiate almeno un po’ scossi dall’euforia creativa di Saunders. Tanto che, se non vi piacciono i libri troppo osannati, potete benissimo iniziare da altro. Per esempio, in questo momento, voglio appropriarmi de “Il megafono spento”, sempre edito dalla minimum fax e di cui ha parlato oggi su Internazionale, Giovanni De Mauro.

La raccolta contiene narrazioni molti diverse tra di loro, soprattutto a livello stilistico. Saunders è un camaleonte e adotta diversi registri e soluzioni formali, di modo che il lettore resti sempre spiazzato e debba “ri-sintonizzarsi” quando inizia un nuovo racconto.  
Nonostante quest’imprevedibilità, vi è una costante emotiva che fa da filo conduttore per la raccolta: la scelta tra l’avarizia dei sentimenti o la compassione, l’individualismo meschino o un atto di altruismo. 

Un motivo ricorrente è quello del salvataggio, di particolare rilevanza nel primo (“Giro d’onore”) e nell’ultimo racconto (“Dieci Dicembre”) - per me, i migliori dell’intera raccolta. I personaggi si trovano nella posizione di dover rinunciare alle proprio regole, al proprio ritmo di vita per soccorrere qualcuno, per aiutare uno sconosciuto. Saunders si interroga sulla possibilità di poter ancora compiere atti di disinteressata umanità in un mondo governato da mercati e dove le emozioni sono mercificate.   

Dieci storie originalissime che contengono immagini bizzarre e mondi fantasiosi che celano un intento morale ammirevole e per niente scontato. La satira del mondo moderno che fa l’autore texano ha una vena surreale e immaginifica, non ha i toni duri dell’indignatio ma un’ironia garbata. 
Ciò non vuol dire che sia innocuo o privo di spigoli. Quello che voglio dire è che non è mai disturbante (come invece è stata per me la lettura di quel meraviglioso romanzo che è Mattatoio n. 5 di Vonnegut a cui Saunders è stato spesso accostato).


È difficile costruire delle storie “assurde” che non si rivelino dei vuoti esercizi di stile, dei giochini cerebrali e autoreferenziali. Il rischio di quest’artificiosità è di lasciare tiepido il lettore. Devo ammettere che alcuni racconti, secondo me, sono freddi, non tutti hanno la stessa carica emotiva. Ma d’altra parte è anche normale il fatto che in una raccolta ci siano racconti più o meno belli. 
La possibile mancanza di cuore di alcune short stories è comunque compensata dalle buone intenzioni dell’autore. Insomma Saunders è troppo bravo per non piacerci, troppo anomalo per lasciarci indifferenti. Un libro che dà una chance all’altruismo e alla speranza, di questi tempi è più unico che raro. Sto dicendo che Dieci Dicembre è ruffiano? Probabilmente lo è ma Saunders non lo fa pesare.

Dirò la verità: secondo me, Dieci Dicembre non è un capolavoro. Ma è una sfida contro l’individualismo e gli egoismi del nostro tempo, ecco perché entusiasma (e meno male!).
Saunders ci dice che la disperazione del mondo è sopportabile. Non è buonista, non è mieloso, non è troppo rassicurante. 

“Il bambino si accostò alla recinzione. Se avesse potuto dirgli, solo con uno sguardo: Non è detto che sarà sempre così. All’improvviso la tua vita potrebbe diventare stupenda. Può succedere. A me è successo”.


Dieci Dicembre è un libro prezioso. Per me ha soprattutto un merito: quello di avermi dato una nuova visione della letteratura. Fin ora mi sono sempre accostata ad autori di rottura, immagino sia una fase, che riuscissero a sconvolgermi, a descrivere la brutalità e le contraddizioni del mondo. Ora penso che c’è ancora posto per una sorta di educazione alla tenerezza, al garbo e alla gentilezza nella letteratura, nell’arte. Ed è anche grazie a Saunders.